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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Giuseppe Ferrara è, tra coloro che ho conosciuto grazie ai miei studi sulla vicenda Moro, una delle persone che mi hanno stupito di più.
Dotato di un bagaglio culturale impressionante, di una finezza di pensiero che lascia a bocca aperta e di una freschezza intellettuale sicuramente più dinamica ed effervescente della mia, nonostante i quasi 30 anni di differenza.

E', per intenderci, una persona che quando parla ha sempre qualcosa da insegnare. Nel suo mestiere (ovviamente) ma anche e soprattutto nelle molteplici vicende che in molti hanno solo letto sui libri e che lui ha vissuto da contemporaneo, ha avuto la possibilità di parlare con i protagonisti e in molti casi di studiare per le inchieste dei suoi lavori cinematografici.

Qualche giorno fa mi ha spedito delle riflessioni che riguardano il ruolo della Banda della Magliana (da molti ipotizzato) nella vicenda Moro. Non tanto nel suo aspetto politico, ovviamente, quanto in quello più strettamente criminale.

Prima di passare alle sue considerazioni, voglio premettere un piccolo (mica tanto) particolare che può aiutare a leggere meglio quanto Ferrara avrà da dirci.
Nel libro "L'Anello della Repubblica" (uscito nel 2009 per Chiarelettere) Stefania Limiti ha messo insieme una serie di elementi così sintetizzabili. Dopo il rapimento, l'Anello viene attivato per la ricerca della prigione dove i brigatisti avevano rinchiuso Aldo Moro. L'Anello si attiva chiamando in causa la Camorra che, a sua volta, si mette in contatto con il suo uomo di collegamento con la Banda della Magliana a Roma. Questi ultimi fanno emergere il nome di via Gradoli. L'informazione viene riportata a Roma ma, a questo punto, l'Anello è stoppato.
E' evidente, a questo punto, che a partire da quel momento in un'ipotetica trattativa per la ricerca della prigione e la sorte del Presidente della DC entra in gioco la Banda della Magliana.

Come, è tutto da definire. O, almeno, io non lo so.
Ma mi sembrava una premessa utile per "leggere" meglio le riflessioni di Giuseppe Ferrara che riporto integralmente di seguito.

"il caso Moro è ancora avvolto nel mistero?
A mio avviso no.
Tutti sappiamo che è stato un golpe. Persino uno studioso cauto come De Lutiis ha significativamente intitolato il suo ultimo libro IL GOLPE DI VIA FANI. Certo, le prove giudiziarie mancano. Ma non si sono volute acquisire o si sono volute sottovalutare. A cominciare dalla famiglia Moro. Che si è comportata malissimo, tradendo lo scomparso che, ricordo bene, forse nell’ultima lettera a Nora punta l’indice accusatore contro la DC. Ma la famiglia non ha avuto nessun coraggio e praticamente ha “coperto” il partito. Partecipando l’anno scorso a un dibattito alla presenza di una delle figlie di Moro ne ho avuto conferma. Alle mie sottolineature di ambiguità di Don Mennini, la figlia lo ha difeso a spada tratta.

Però ogni tanto, a volte quando meno te l’aspetti, escono delle verità.

Anche solo riflettendo.

Per esempio sulla Banda della Magliana.

Fin da quando uscì il mio film nelle sale, il regista Agosti mi disse che era stata la banda della Magliana ad uccidere Moro. Non so da chi avesse avuto questa informazione, ma anche se avesse raccolto una “voce”, cioè avesse recepito una convinzione popolare, la notizia ha un forte valore indiziario e va presa molto sul serio.

Ecco perché.

Stefano Grassi, nel bellissimo libro IL CASO MORO- UN DIZIONARIO ITALIANO, alla voce B. della M., scrive: “Nel quartiere, controllato in modo capillare da questo particolare tipo di malavita collegato a settori deviati dei servizi segreti e all’eversione nera, è situata la prigione del popolo di via Montalcini. Nelle immediate vicinanze di via Montalcini abitano numerosi esponenti della banda: a via Fuggetta 59 ( a 120 passi da via Montalcini) Danilo Abbruciati, Amelio Fabiani, Antonio Mancini; in via Luparelli 82 ( a 230 passi dalla prigione del popolo) Danilo Sbarra e Francesco Picciotto (uomo del boss Pippo Calò); in via Vigna due Torri 135 ( a 150 passi) Ernesto Diotallevi, segretario del finanziere piduista Carboni; infine in via Montalcini 1 c’è villa Bonelli, appartenente a Danilo Sbarra” (pagg.62-63,Mondadori,2008).

La “rivelazione” della prigione del popolo venne fatta da Morucci e Faranda al giudice Imposimato. Io stesso (nel 1985, mentre preparavo il film, proprio seguendo il suggerimento di Imposimato) ho potuto fare un sopraluogo nell’appartamento e constatare che sul pavimento c’erano ancora le tracce della falsa parete applicata dai brigatisti per creare un’intercapedine segreta.

Usando la logica, e guardando sulla cartina topografica l’ubicazione delle vie abitate dai banditi, via Montalcini risulta circondata dalle loro abitazioni; appare evidente che la scelta della “prigione del popolo”, dove però non abbiamo alcuna certezza che Moro vi abbia passato almeno qualcuno dei 55 giorni, non sia stata fatta dalle br ma dai maglianesi, che appunto volevano controllare a vista la “prigione” (a questo punto eventuale) e quindi Moro nonché i brigatisti.

Non solo. Poiché la ferocia dei banditi e il volume di fuoco che sarebbero stati capaci di produrre è addirittura mitico, appare chiaro che chi gestiva il rapimento era proprio la Banda ( e cioè i servizi diciamo così deviati, che con la Banda hanno rapporti strettissimi, come si deduce da tanti episodi ). Le br sono in realtà esse stesse prigioniere della Banda. E quindi delle forze politico-finanziare occulte che volevano la morte di Moro. Infatti sull’UNITA’ del 26 settembre 1982 Emanuele Macaluso ha dichiarato: ”Noi siamo fra coloro che non hanno mai creduto che a rapire e ad uccidere il presidente della Dc siano state solo le Brigate Rosse che organizzarono l’infame impresa. Abbiamo sempre pensato che gli autonomi obiettivi politici delle Br coincidessero con quelli di potenti gruppi politico-affaristici nazionali ed internazionali, che temevano una svolta politica in Italia” (citato anche nel volume POTERI FORTI, POTERI OCCULTI E GEOFINANZA, Mafia Connection ed., Pavia, 1996,pag.232). Conferma di tutto questo viene dalla lettura del volume IL MISTERIOSO INTERMEDIARIO di G. Fasanella e G.Rocca (Einaudi, Torino , 2003). Tra l’altro si viene a sapere che proprio in via Caetani esisteva un appartamento segreto (di proprietà della Duchessa Caetani) che durante la guerra aveva ospitato l’agente OSS Peter Tompkins e che potrebbe aver ospitato anche Moro prima dell’esecuzione. Sicuramente la Duchessa aveva persino l’accesso ad un un garage ( quello servito a nascondere la Renault rossa prima dell’assassinio, sul quale naturalmente nessuno ha indagato).

Che Moro abbia frequentato poco la prigione di Via Montalcini (se l’ha frequentata) è ormai certo (passare 55 giorni in un loculo senz’aria lo avrebbe stremato, invece la perizia del cadavere ha stabilito che Moro era in buone condizioni). Le altre “prigioni” sono almeno due: una (forse quella stabile, dove potrebbe aver passato la maggior parte dei giorni - spostare Moro sarebbe sempre stato un rischio) situata sulla costa laziale (sempre la perizia appura che sia le scarpe sia i pantaloni di Moro sia la Renault rossa hanno tracce bituminose e di terriccio che rimandano ad un luogo vicino a Palinuro) e una dove potrebbe aver atteso il momento dell’assassinio che secondo i brigatisti sarebbe avvenuto nel garage di via Montalcini. Bugia ridicola per tre motivi : il primo è che la Banda come ha scelto il covo di via Montalcini così sceglie il covo presso Palinuro; il secondo perché il garage di Via Montalcini è molto piccolo, quindi scomodo per sparare a Moro col cofano aperto, ed è molto esposto a visite di estranei ; infine portare il cadavere di Moro sanguinante da via Montalcini a via Caetani, cioè per diversi chilometri con molta polizia in allarme, è ovvio che fosse un rischio da evitare assolutamente; infatti la logica ci dice che il garage dove è stato ucciso Moro non può essere che in Via Caetani (cioè nel Ghetto ebraico) a pochi metri dal posteggio dove poi sistemare la Renault rossa.

Su chi abbia sparato a Moro i brigatisti hanno indicato ben tre di loro e questo dimostra sia pure solo indiziariamente che la loro testimonianza è inattendibile. Molto più attendibili i messaggi lanciati da un appartenente alla banda della Magliana, Antonio Chichiarelli, che lascia in un taxi un borsello con oggetti che “alludono a momenti diversi del rapimento e del sequestro Moro: i dodici proiettili, sparati da due armi diverse, con i quali Moro è stato ucciso; la testina rotante con cui sono stati scritti i comunicati (…); le due fotografie di Moro scattate dai brigatisti, il comunicato del lago della Duchessa; i medicinali che necessitano al prigioniero; i fazzoletti di carta con cui sono state temponate le ferite dopo l’esecuzione; un pacchetto di sigarette della marca fumata da Moro” (S.Grassi, op. cit., pag 155). Con questi documenti o notizie che potevano essere in mano a Chichiarelli ( es. : la foto originale della Polaroid) solo per aver gestito in prima persona sequestro e assassinio, sono, oltre che un oscuro messaggio, la confessione del delitto stesso. Quando dichiara di conoscere la marca dei fazzolettini tampone, Chichiarelli ci fa sapere che è lui che li ha messi sul cadavere di Moro, al punto da farci sospettare che sia proprio il killer del presidente ( o almeno che ha fatto parte del commando maglianese).

Questa “crescita” dell’importanza della B.della M. nel caso Moro apre uno scenario diverso e inquietante che fa valutare in modo nuovo altri episodi (tra cui primeggia il falso comunicato n.ro 7). Ma anche la scoperta del covo di Via Gradoli si configura sotto un’altra luce ( per es.: vuoi vedere che Chichiarelli aveva le chiavi dell’appartamento ed è stato lui, o qualcuno come lui, a provocarne la scoperta?)

La banda era potentissima anche in Vaticano, per i rapporti con Marcinkus (venuti fuori nella rubrica tv CHI L’HA VISTO) e, com’è noto, per aver fatto seppellire nientemeno che uno di loro nella basilica di San Paolo (alla stregua di un santo o di un cardinale!)."
 
Sta per uscire un libro-documentario realizzato dai giornalisti Giampiero Marrazzo e Gianluca Cerasola sull'abbattimento del DC9 il 27 giugno del 1980 nei cieli di ustica.

Trent'anni fa.

E per i pochi smemorati ricordo che furono uccisi 81 cittadini innocenti e che la giustizia italiana non è riuscita ancora a dare un nome ai responsabili di quell'atto di guerra.

I due autori hanno intervistato l'Emerito coniglio Francesco Cossiga il quale si dice sicuro di come andarono i fatti quella sera. Ecco quanto riportato dall'ANSA:


USTICA: COSSIGA IN UN FILM, DC9 ABBATTUTO DA AEREO FRANCIA ANTICIPAZIONE INTERVISTA SU TRAGESIA AEROMOBILE ITAVIA
(ANSA) - ROMA, 24 MAG - «L'aereo francese si era messo sotto il Dc9, per non essere intercettato dal radar dell'aereo libico che stava trasportando Gheddafi. Ad un certo punto lancia un missile per sbaglio, volendo colpire l'aereo del presidente libico». Lo ha dichiarato il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga nel film inchiesta dal titolo «Sopra e sotto il tavolo - Cosa accadde quella notte nel cielo di Ustica», realizzato dai giornalisti Giampiero Marrazzo e Gianluca Cerasola sulla tragedia del Dc9 dell'Itavia inabissato al largo di Ustica il 27 giugno del 1980 e pubblicato dall'editore Tullio Pironti. Le dichiarazioni di Cossiga sono state rese note oggi da uno degli autori del film, Giampiero Marrazzo. «Chiamai io l'ammiraglio Fulvio Martini, direttore del Sismi - continua il senatore a vita - che mi disse che non aveva prove, se non quelle dell'intelligence che raspa nei bistrot». Riferendosi poi agli autori del film, che uscir… il prossimo 10 giugno in un cofanetto con un libro con la prefazione del senatore a vita Giulio Andreotti, Cossiga li ha avvertiti dicendogli: «Io vi sconsiglio vivamente di andare in Francia. Se continuate questa inchiesta potrebbe succedervi qualcosa: un'intossicazione alimentare, lo scoppio di uno pneumatico o uno scontro con un camion». In ogni caso, secondo Cossiga, «ci può essere un governo di destra, di centro-destra, di sinistra o di estrema sinistra, ma i francesi non lo diranno mai; magari finchè‚ qualcuno che sa o che è l'autore, in punto di morte non avrà paura del giudizio dell'Altissimo, a cui non potrà opporre egalitè, fraternitè e libertè».

Bene. Lasciando da parte il solito refrain cui l'ex Presidente ci ha abituato (dichiarazioni monche, che nascondono una pseudo-paura ma che in realtà vogliono coprire i reali responsabili di molti comportamenti di quegli anni) stavolta siamo davvero al tragicomico.

Se non fosse per il resto del Mondo, l'Italia sarebbe stato (e sarebbe tutt'ora) il Paradiso terrestre. Porca miseria, sempre qualche imprudente che ci combina un disastro, mai che le Istituzioni  abbiano avuto uno straccio di responsabilità.

Eh no, caro Cossiga. Troppo semplice.
Io dico che stavolta lei bluffa alla grande e in molti ci cascheranno. Io dico che il Governo italiano era ben consapevole di quale messaggio portò con se Ustica, chi lo mandò e chi, non avendo avuto risposte esaurienti, replicò il concetto il 2 agosto...

E anche lei lo sa. Inutile intimidire i due ignari autori per non farli andare in Francia. Si godano pure una meritata vacanza, ma siano consapevoli che non è la caccia ai fantasmi che li avvicinerà alla verità.

Quando si fanno affari sporchi non ci si può lamentare se qualcuno risponde in maniera sporca. Ma gettare il bambino con l'acqua sporca non mi sembra un modo intelligente di chiudere la faccenda.
 
Di M. Castronuovo  16/05/2010, in AnniDiPiombo (2030 letture)
Il 12 maggio del 1977, in una manifestazione indetta dai radicali per ricordare il III anniversario del referendum sul divorzio, trovò la morte la studentessa Giorgiana Masi. E’ solo una delle tante vittime dei moti di piazza degli anni ’70, ma la sua morte è caratterizzata da circostanze mai chiarite e sulle quali una sentenza si è espressa in maniera sbalorditiva.

Giorgiana Masi non è vittima di schieramenti contrapposti, come si potrebbe facilmente immaginare. Ad ucciderla sono stati colpi d’arma da fuoco (calibro 22) sparati con l’intenzione di uccidere mentre, di spalle, fuggiva dalle cariche della Polizia.

Quei colpi ferirono altre due persone: un poliziotto ed un'altra manifestante. Il corteo si tenne nonostante il divieto di manifestazioni pubbliche entrato in vigore dal precedente 21 aprile quando fu ucciso un agente di Polizia e ne furono feriti altri cinque.
L’inchiesta sui fatti del 12 maggio ’77 si concluse il 9 maggio del 1981 per impossibilità di procedere (non fu individuato nessuno dei responsabili).

Parlavamo della sentenza. Eccone un tratto che, a rileggerlo a distanza di 33 anni, aumenta lo sgomento e la rabbia. Sgomento per ciò che caratterizzava le dinamiche del potere (ancora attive?), rabbia perché a farne le spese fu un’innocente ed indifesa studentessa.

«È netta sensazione dello scrivente che mistificatori, provocatori e sciacalli (estranei sia alle forze dell’ordine sia alle consolidate tradizione del Partito Radicale, che della non-violenza ha sempre fatto il proprio nobile emblema), dopo aver provocato i tutori dell’ordine ferendo il sottufficiale Francesco Ruggero, attesero il momento in cui gli stessi decisero di sbaraccare le costituite barricate e disperdere i dimostranti, per affondare i vili e insensati colpi mortali, sparando indiscriminatamente contro i dimostranti e i tutori dell’ordine.»

Cosa c’entra l’Emerito? Era Ministro degli Interni, mica Iddio! Non era ovunque e non poteva sapere tutto!
Si può dissentire?

Oltre alle responsabilità penali, esistono anche quelle politiche. Nel senso che ci sono persone che hanno il dovere di sapere, hanno il dovere di prevenire. Non glielo ha imposto il medico, lo hanno scelto da soli nel momento esatto in cui hanno accettato certe cariche.
Quindi un Ministro dell’Interno che non è in grado di assicurare che personaggi estranei (?) alle forze dell’Ordine operino in maniera sovversiva, dovrebbe essere calciato a pedate nel deretano ed il suo volto affisso in quel “Wall of incapable” affinchè nessuno possa dimenticarne l’assoluta incapacità nel rappresentare le istituzioni.
E non essere premiato sino alle più alte cariche dello Stato.

Ma il motivo più grave che ci porta a dover parlare ancora dell’Emerito, non è questo.

A saper leggere bene le parole del giudice Claudio D’Angelo, sembra proprio che quel 12 maggio del ’77 non sia stato altro che l’ennesimo episodio della strategia della tensione che ha tenuto in bilico il nostro Paese (senza sovranità) e che il sangue bipartizan sia stato versato solo nell’ottica del ricatto tra blocchi contrapposti che si contendevano il predominio sul nostro territorio, in una guerra tutt’altro che fredda combattuta sullo scenario mondiale.
Cossiga ha più volte accennato ai fatti di quel giorno con le solite allusioni, mezze affermazioni degne del più codardo dei pentiti: quello che racconta ciò che gli torna comodo per l’esclusivo tornaconto personale e dei benefici di legge.


La studentessa Giorgiana Masi

Nel 2003 fu un po’ criptico:
«Non li ho mai detti alle autorità giudiziarie e non li dirò mai i dubbi che un magistrato e funzionari di polizia mi insinuarono sulla morte di Giorgiana Masi: se avessi preso per buono ciò che mi avevano detto sarebbe stata una cosa tragica»

Ma nel gennaio del 2007, in un'intervista al Corriere della Sera fu molto chiaro dichiarando di essere una delle cinque persone che sono a conoscenza del nome dell'assassino di Giorgiana Masi.
E tutti ricordiamo ancora bene il 24 ottobre del 2008 quando fu prodigo di consigli per il Ministro degli Interni Maroni su come affrontare le manifestazioni di piazza che il movimento l’Onda promosse per protestare contro la riforma Gelmini.

Allora Emerito?
Lo so che è difficile per un coniglio diventare leone, ma noi non pretendiamo questo. Vorremmo solo che il prossimo carnevale metta il suo bel vestitino da Re della Foresta e trovi il coraggio per parlare. Cosa è successo quel 12 maggio 1977? Quali forze del “doppio stato” hanno utilizzato quella manifestazione perché tornasse comodo ad alti settori delle Istituzioni? E già che c’è, ci racconti anche di Aldo Moro, di Ustica e di Bologna. Ci accontenteremmo di questo, per cominciare.

Poi potrà decidere lei stesso se mantenere il travestimento o tornare alle più comode vesti di coniglio

Più volte è intervenuto in difesa dei brigatisti che furono protagonisti della vicenda Moro contro chi li ha accusati di essere solo il braccio armato di menti di ben altro livello. Un riconoscimento politico che ha un significato preciso: erano un fenomeno autentico, non erano pilotati, ma sono stati “fregati” da qualcosa di più grande di loro. Una esplicita ammissione del fatto che l’Emerito ben conosce chi li ha fregati e come lo ha fatto. Non fosse altro perché è stato proprio lui il primo ad essere “giocato”.
Non si può pretendere di sapere dalle BR che contrastavano lo Stato chi, da dentro le istituzioni (o dall’esterno ma con un cordone ombelicale ancora non reciso), ha “giocato sporco” determinando l’uccisione di Aldo Moro.
Ma se è stato beffato anche Cossiga, vuol dire che è stato beffato lo Stato. E se si può capire il perché 30 anni fa queste cose l’Emerito non potesse dirle (era un coniglio, meglio ancora un cane abituato ad abbaiare a comando in cambio del biscottino al tartufo…) è vergognoso che alle soglie del crepuscolo della sua inutile esistenza tenga ancora la bocca tappata.
Forse, oggi, è questo l’ordine che fedelmente continua ad eseguire.
La sua missione non è terminata.

Si goda i “biscottini”, Emerito. Potrebbero essere gli ultimi.
 
Illustrissimo Sig. Presidente Giorgio Napolitano,

come ogni 9 maggio Lei si starà preparando a ricevere le famiglie dei caduti durante gli “anni di piombo” per celebrare con loro la giornata della memoria delle vittime del terrorismo.
E’ importante che un Paese non perda la memoria anche dei propri anni più bui e mantenga alto il rispetto dei tanti che hanno sacrificato le proprie vite nella difesa dello Stato o di simboli e strumenti della democrazia.

Fino ad ora, però, le precedenti ricorrenze sono apparse più come delle convention di marketing che dei momenti di “presa di coscienza” e di superamento del dolore sul piano individuale.

C’è una parola che deve necessariamente accompagnare il termine “memoria” altrimenti questa resta un momento individuale di dolore che andrà presto perso lasciando spazio alla semplice compassione. E questo termine è Storia (con la S maiuscola, non è un errore).

La Storia, si impara sin dai banchi di scuola, la scrivono i vincitori. Gli anni ’70, i nostri anni ‘70, sono stati raccontati solamente da chi ne è uscito sconfitto e ha pagato (più o meno completamente) il proprio debito con la società.
Storici, giornalisti, osservatori e, soprattutto, familiari delle vittime non trovano però esaustive quelle parole, ritenendo che vi siano ancora troppi “buchi neri” di cui gli ex terroristi non parlano e che lasciano ancora troppe ombre sulle responsabilità di tante morti.

Evidentemente quei racconti, pur numerosi e forniti da più punti di vista, non sono sufficienti a chiarire fino in fondo come andarono le cose nel nostro Paese.
Perché? Semplice.
Perché loro, gli ex terroristi, hanno parlato di ciò di cui potevano parlare, un racconto dal loro punto di vista che, evidentemente, non è bastato per conoscerla tutta la verità.
Ci manca quel Dark side of the moon che non potrà mai venire dagli ex semplicemente perché non è loro responsabilità diretta. E quindi, come dice Curcio in una famosa intervista, dovrebbero fare delle chiamate di correità non avendo “le parole e le prove” per farlo.

Come uscirne? Sarebbe semplice se il nostro Paese avesse davvero la volontà di uscirne. Ma io credo che non ne abbia nessuna intenzione. Più semplice utilizzare il dolore che essere disposti a fare i conti con un passato che, forse, tanto lontano non è. Torna sempre utile un mistero quando si può, a seconda dell’occasione, scaricarne la colpa all’uno o all’altro.

Se Lei, Signor Presidente, fosse di avviso contrario, e volesse davvero utilizzare il 9 maggio 2010 come inizio di uno sparti-acque che ci traghetti verso una società più matura una cosa la può fare concretamente.

Qualcuno che in quello Stato ricopriva ruoli importanti, ha forse una certa disponibilità a raccontare un ulteriore pezzetto di verità che riguarda aspetti fino ad ora mai chiariti relativi a quello Stato che Lei, oggi, si trova a rappresentare nel cuore e nell’anima di tutti gli italiani.
Gianadelio Maletti, Generale del SID, direttamente coinvolto nelle strategie di quegli anni, ufficialmente latitante dal 1980 per la giustizia italiana condannato a 4 anni per favoreggiamento nel processo per la strage di piazza Fontana, ha ribadito (lo aveva già detto nel 2000 in un’intervista a Repubblica) il ruolo della CIA negli anni delle bombe e delle stragi. Pochi giorni fa, invece, si è anche espresso sulla vicenda di Aldo Moro sostenendo che i brigatisti avevano fatto un colpo troppo grosso e allora era impensabile che non si potessero mettere in mezzo forze molto differenti che, probabilmente, ebbero un ruolo determinante nel condizionare la morte del Presidente della DC.

Cose gravi, gravissime, che in qualsiasi Paese avrebbero provocato aperture di TG nazionali, quotidiani. Avrebbero “costretto” la magistratura ad interessarsi del caso, a verificare, approfondire.
Invece in Italia, Panta Rei, tutto scorre. Scorre sul velo dell’indifferenza della gente comune, del silenzio di coloro che sono chiamati in causa e, stranamente, sembra non interessare più di tanto neanche i familiari dei caduti.

Facciamolo questo sforzo. Si faccia ricordare come il primo Presidente che ha avuto il coraggio di guardare in faccia alla realtà e se siamo stati colonia, non fa niente. Ma almeno si potesse ammetterlo apertamente, sapere che la “ragione di Stato” non è un concetto astratto ma un muro invisibile che nasconde il dolore, la dignità di un popolo.

Quando non ci sono più le condizioni storiche, i muri cadono. E quando cadono possono provocare ulteriori dolori, è vero. Ma restituiscono la dignità, danno una speranza.

“Dobbiamo insomma aver cura che si rafforzino tutte le condizioni indispensabili per portare avanti, per portare a compimento un giusto sforzo di ricomposizione storica, nella chiarezza, e di rinnovata coesione umana, morale e civile della nazione.”
9/5/2009 – Discorso del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel "Giorno della Memoria" dedicato alle vittime del terrorismo.

E allora, caro Sig. Presidente, le dica queste nuove parole il 9 maggio. Non si immetta nel solito algoritmo ricorsivo di richiesta indefinita della verità.
Non chiediamola ma cerchiamola questa verità. E cominciamo da quello che hanno da dire coloro che erano dall’altra parte della barricata, che avrebbero dovuto difendere le Istituzioni.
Sono sicuro che una volta rotto l’argine, il fiume scorrerà generoso e darà nuova prosperità alle future generazioni.

PS. Eccovi i due video dell'intervista al Generale Gianadelio Maletti fatta da tre giornalisti Andrea Sceresini, Nicola Palma e Maria Elena Scandaliato che sono andati in Sudafrica e che dalla loro esperienza hanno tratto il libro "Piazza Fontana, noi sapevamo" (Aliberti Editore)


Maletti parla del caso Moro



Maletti parla della strage di piazza Fontana
 
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